Identificarsi, farsi riconoscere e distinguersi dagli altri è stata un’esigenza umana sin dall’antichità; individui, gens, famiglie, tribù tutti hanno sempre cercato di rappresentare una propria specifica particolarità sia stata essa una caratteristica personale, l’attività principale svolta dalla gens o il luogo di provenienza del gruppo.
Vi sono varie teorie sull’origine degli stemmi araldici di certo questi ebbero maggiore enfasi in un'epoca in cui l’analfabetismo era molto alto, in tutti gli strati della società, e l’esigenza di rendere facilmente riconoscibile da tutti un individuo, un mestiere o una corporazione era basilare.
La forma più semplice certamente era l’immagine (oggi con faciloneria diremo il “logo”) ed i primi stemmi, perlomeno quelli più vecchi di cui si ha conoscenza, erano delle vere e proprie immagini/insegne cosiddette “parlanti” che descrivevano/identificavano in maniera immediata il possessore. Lentamente questi vennero impiegati anche come elemento indicativo di possesso, status sociale e potere sia della persona che della famiglia.
Il loro utilizzo iniziò a spaziare; vennero riprodotti su sigilli (per chiudere lettere o firmare documenti), sugli anelli (così detti chevalier inizialmente utilizzati come sigillum personale e successivamente come semplice ornamento) e sui possedimenti (castelli, palazzi, abitazioni, tenute rurali, etc.) così da non porre dubbio alcuno sul reale proprietario di un bene e conseguentemente sul prestigio della famiglia d’origine.
Ancora oggi è possibile ammirare su molti edifici i resti di quegli stemmi e simboli che identificano le differenti famiglie. Attenzione occorre avere invece per le botteghe, i mestieri e le corporazioni che facevano uso di simboli identificativi (es. incudine e martello per i maniscalchi, coltelli e forchettoni per gli osti, la staffa per i mastri ferrai, etc.) su portoni e architravi, ma queste erano più che altro delle “insegne pubblicitarie”, queste sì che si possono definire dei loghi al pari del moderno marchio di un’azienda, più che uno stemma identificativo vero e proprio.
In particolare per gli stemmi, spesso scolpiti su pietra, si poteva creare il problema di confusione con altri che avessero gli stessi “elementi” (disegno e forma) ma differenti “smalti” (colori). Per far fronte a questo rischio di confusione vennero create delle regole che identificassero i colori, gli elementi e le differenti forme di organizzazione dello scudo (una vera e propria “quadratura” necessaria ad identificarne le varie zone e le sue divisioni cioè le “partizioni”). Questa forma di descrizione, conosciuta come rappresentazione verbale di uno stemma, è detta: blasonatura.
La creazione dei blasoni (lettura dello stemma secondo specifiche regole) e degli stemmari (testi in cui sono raccolti gli stemmi delle famiglie di un determinato regno o luogo), possiamo definirla quale una prima forma di “anagrafe” anche se relegata ad una ristretta cerchia di individui e famiglie.
Il possesso di uno stemma, comunque, non comporta automaticamente il possesso di un titolo nobiliare. Vi sono molte famiglie, ma anche ecclesiastici, non nobili ma di “distinta civiltà” (tale forma di riconoscimento è riportata nell’articolo 30 del Regio Decreto 7.6.1943 n° 651 dell'Ordinamento dello Stato Nobiliare Italiano e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 24 luglio 1943).
La distinta civiltà, categorizzazione questa tutta italiana (anche se nel resto dell’Europa l’utilizzo di stemmi da parte di famiglie non nobili è molto diffuso), stabilisce la possibilità di riconoscere ad una famiglia non nobile uno stemma del quale se ne possa provare il possesso da almeno un secolo. Questo riconoscimento, ovviamente, non comporta anche l’acquisizione di un titolo nobiliare che resta sempre una concessione da parte di una casata regnante.
Gli stemmi di distinta civiltà si differenziano da quelli nobiliari dall’assenza della corona importantissimo elemento araldico che nelle sue varie forme e posizioni identifica il titolo del possessore. Gli stemmi di distinta civiltà, spesso erroneamente indicati come “stemmi borghesi”, non sono sovrastati da corone ma al massimo da un elmo e da un’eventuale cimiero (il cimiero è costituito dalle figure presenti nello scudo o da altre che richiamano un’impresa eroica del titolare; in ogni caso riprende i colori dello scudo. E’ un elemento utilizzato particolarmente negli stemmi dei paesi del nord Europa).
A prima vista potrebbe risultare facile “blasonare” (descrivere) uno stemma tuttavia vi sono una moltitudine di varianti, particolarità ed eccezioni che anche i più accorti conoscitori della materia (Scienza Araldica) potrebbero, in alcuni casi, riscontrare delle difficoltà.
Partendo da questo presupposto, testi alla mano, e con umiltà proveremo a blasonare lo stemma della famiglia di seguito riportato: “D’oro accompagnato in capo da un giglio rosso alla punta d’azzurro caricata delle lettere romane I H S d’argento”.
FONTI:
- Documenti vari (diari, corrispondenza, atti di nascita, morte e matrimonio) in possesso della famiglia;
- Atti catastali e di proprieta’ della Famiglia in agro di Sanarica (Lecce);
- Piero Guelfi Camaiani, Dizionario Araldico, Hoepli, Milano 1940;
- Carl Alexander von Volborth, Usi, regole e stili in Araldica, Melita Editori, Citta’ di Castello (PG) 1994;
- Lorenzo Caratti di Valfrei, Araldica, Mondadori Editore, Milano, 2008;
- Robert Viel, F. Cadet de Gassicourt, Du Roure de Paulin, Le origini simboliche del blasone, Edizioni Arkeios, 1998;
- Ottfried Neubecker, Le grand livre de l'Héraldique, traduzione francese di Roger Harmignies. Bruxelles, Elsevier Séquoia, 1977, riedito da Bordas;
- Pierre Jaillard: Les blasons, Hachette, 2013;
- Giovanni Santi-Mazzini: Araldica - Storia, linguaggio, simboli e significati dei blasoni e delle arme, Mondadori, Milano, 2004;
- A.-C. Fox-Davies: Complete Guide to Heraldry, Wordsworth, 1996;
- Pedro Joseph de Aldazaval y Murguia: Compendio heráldico, Martin Joseph de Rada, 1992.
Le prime tracce che identificano questa Famiglia si trovano nei documenti dell'Università di Sanarica e del Santuario della Madonna delle Grazie, a cavallo tra la fine del XV e gli inizi del XVI secolo. Per quanto il cognome Puce nella sua genericità è riscontrabile già in vari documenti tra il XII ed il XIII secolo. Tipico del Salento centro meridionale è maggiormente presente nei comuni di Maglie, Sanarica, Botrugno, Nociglia, Campi Salentina, Scorrano e Lecce con piccole presenze nelle province di Taranto e di Brindisi.
Spesso altri cognomi quali “Puci” o “Pucci” vengono indicati come una variante ma entrambi sono sostanzialmente differenti sia terminologicamente che geograficamente in quanto “Puci” è maggiormente riscontrabile in Sicilia mentre “Pucci” in Toscana. Da non escludere che, in passato, possono esserci state delle errate trascrizioni che hanno poi portato la creazione di un cognome ex-novo anche se proveniente da quella stessa famiglia. Infine, oggi, e’ possibile riscontrare presenze del cognome Puce anche in varie parti d’Italia e del Mondo ma questo è dovuto esclusivamente a recenti migrazioni di singoli individui o di piccoli nuclei familiari.
Vi sono varie teorie rintracciabili sull'origine del cognome PUCE certamente è difficile dire quale tra le seguenti sia quella da ritenere più verosimile, probabile o attendibile. Una prima versione vedrebbe intorno ai primi del 1400 i possibili "capostipiti" (intesi come capofamiglia di vari gruppi/gens) di religione cristiana in fuga, a causa dell'invasione turca, da un'area dell'attuale Albania il cui toponimo sarebbe Puke (o Puče).
La traduzione potrebbe differire in base al suono fonetico del termine, comunque la più attendibile o accreditata dovrebbe essere pozzo e/o buca. Particolare interessante e’ che la dizione fonetica albanese coincide con quella autoctona. In ogni caso analizzando i periodi temporali di questa "versione" vi sono alcune discrasie temporali. Innanzi tutto le maggiori migrazioni dei cristiani albanesi verso l'Italia avvennero tra la fine del ‘300 e la metà del '400 e le comunità più numerose di origine albanese si trovano in una vasta area e in diversi comuni in Calabria e Sicilia, mentre nel Salento, che comprende l’attuale provincia di Lecce e la parte meridionale delle province di Brindisi e Taranto, l'unico comune che conserva una tradizione di origine albanese è San Marzano di San Giuseppe (Taranto).
Pertanto pare strano che questo “identificativo” diventato poi cognome non sia presente anche nelle altre aree di migrazione come la Sicilia storicamente vicina al Salento per la comune tradizione bizantina e la Calabria più vicina fisicamente e commercialmente. Luoghi, quelli della migrazione, dove, ancora oggi, la tradizione e la lingua albanese è ancora molto presente. Per il resto la penisola salentina risente piu’ di una tradizione greco-bizantina, infatti ancora oggi sono presenti ben nove comuni in cui si parla un dialetto neo-greco noto come grecanico o griko. Infine, si rappresenta che il cognome, come tale o solo come indicativo di un “gruppo sociale”, risulta citato in loco in documenti e atti, sia pubblici che privati, quasi due secoli prima di queste migrazioni. Pertanto, pare difficile che possa essere derivato da tali migrazioni ma senza escludere che possano esserci stati trasferimenti di persone singole o in gruppi in tempi differenti. Aspetto particolare che lascia perplessi è che quest’appellativo non è presente negli altri luoghi di tradizionale migrazione albanese ma risulta essere concentrato solo nel Salento Centro-Meridionale.
Una seconda tesi riporta una “discendenza” spagnola. Infatti, nella regione della Catalogna il cognome Puche (che in spagnolo si pronuncia con lo stesso accento salentino: Puce) è presente in varie parti (alcune anche con uno stemma molto simile a quello di questa famiglia). Pertanto, non sembrerebbe assurda l’ipotesi che alcuni dei progenitori fossero individui al seguito o facenti parte delle armate spagnole che nei vari secoli sono giunte in Italia e nel meridione in particolare rimasta fortemente legata al Regno di Spagna sino alla caduta del Regno delle Duesicilie. Per quanto giustificabile come ipotesi, avvalorata dalla presenza nel Salento di molti cognomi di chiara etimologia spagnola, resta il dubbio del perché nelle altre parti della penisola italiana, occupata da truppe o personale proveniente dalla Spagna, questo cognome non sia presente al pari degli altri.
Parimenti alla precedente versione si palesa la “strada francese”. Infatti, in francese il termine “puce” indica la pulce ma la pronuncia, diversamente dalle altre lingue, è “piùs” ed in italiano la trascrizione sarebbe stata differente come lo è anche la pronuncia. Anche in questo caso essendo le armate francesi, al pari delle spagnole, presenti in tutto il meridione pare stano che solo nel Salento e non in altri luoghi in cui fossero di stanza le armate d’oltralpe vi fosse questo cognome. Un particolare, tenendo presente invece che il cognome Pìus (da non confondere con il Pius (Pio) latino), anche se non diffusissimo, è presente in Italia, in Europa ed in Nord America (ex colonie Francesi) non è affatto presente nell’area salentina il che renderebbe non sostenibili queste due versioni.
Ovviamente, non può certo mancare la possibilità che si sia sviluppato come soprannome tra il 1300 ed il 1400 e divenuto poi identificativo di un soggetto e dei suoi discendenti con le trascrizioni effettuate nelle parrocchie all’atto di “registrare” un battesimo o un matrimonio. Ma se prendiamo come riferimento il soprannome si torna sempre al punto di partenza; risulta difficile che un solo soggetto possa aver dato vita ad un così numeroso nucleo di “discendenti” o che a più soggetti in luoghi differenti abbiano dato lo stesso “soprannome”. Tenendo sempre presente che i soprannomi derivavano da alcune particolarità o caratteristiche di un solo individuo. A conferma di ciò non è raro trovare, ancora oggi, nei paesi salentini fratelli che hanno dei soprannomi differenti e che in passato hanno anche dato vita a cognomi diversi e conseguentemente a famiglie differenti.
Infine, come spesso avviene, vi è anche una doppia versione “storico-mitologica” che anche se forse non del tutto azzardate non possono certamente mancare.
Una prima indicazione da S. de Marinis nell’Enciclopedia dell’Arte Antica del 1965 dove indica: “PUCE quale nome etrusco corrispondente, se la lettura è giusta (talvolta è stato letto come luce o puci), al greco Phokos. Esso sembra designare su una bellissima gemma incisa, del V-IV sec. A.C., ora in possesso del British Museum (ex Collezione Fanelli di Sarteano, ma provenienza incerta), la figura di un giovane nudo, dalla cui fronte sembrano cadere gocce di sangue, curvo in avanti su un disco, poggiato a terra ai suoi piedi. La figura puo’ essere interpretata come Phokos, figlio di Eaco, che fu ucciso, colpito appunto da un disco”. In effetti in Toscana vi era la presenza di cognomi del tipo Puci e/o Pucillo oggi scomparsi o rarissimi come nel Salento.
La seconda versione storico-mitologica ed ultima in ordine di studio/ricerca scaturisce dalle migrazioni di popolazioni illiriche (Messapi, Dauni e Peucezi) che intorno al IX sec. a.C. si stanziarono nei territori dell’attuale Puglia. In particolare i Dauni si stanziarono nell'attuale Provincia di Foggia, i Messapi si stanziarono nel Salento mescolandosi alle popolazioni autoctone “sallentine”, i Peucezi si posizionarono nell'attuale Provincia di Bari. Tutte queste popolazioni mantennero la loro "individualità ed identificazione" (prova del fatto è che Quinto Ennio, originario di Rudiae e considerato il padre della letteratura latina, veniva indicato come discendente di Messapus) anche per tutto il periodo romano sino alla caduta dell'Impero di Occidente storicamente fissata nel 476.
Fortunatamente le vicende umane non tengono conto delle date o dei confini temporali imposti a-posteriori, per cui le individualità tribali si saranno certamente protratte ben oltre quella data ed infatti tracce identificative si trovano nei movimenti di popolazioni dovute agli attacchi saraceni alle città di Brindisi, Taranto e Bari. E' probabile che alcuni gruppi di queste genti per sfuggire alle incursioni saracene, a causa di persecuzioni religiose o semplicemente per lavoro abbiano preferito trasferirsi verso il Salento che rimasto sotto il controllo di Bisanzio (Impero Romano d’Oriente) garantiva maggiore libertà di culto e possibilita’ di lavoro. Per cui è probabile che per identificare i "nuovi arrivati" secondo l’uso romano ancora in voga vi era la necessità di individuare almeno la gens, il gruppo etnico di provenienza con un nomen (equivalente al nostro cognome). Questo può aver dato così origine al cognome Puce visto che in latino “eu” si legge “u” l’iniziale Peucezi si può essere trasformato in Pucezi e successivamente in Puce e/o Puci. Mentre nelle aree intorno alla Puglia dove la dominazione bizantina (tardo romana) era più affievolita o persa eventuali migrazioni possono non essere avvenute o gli usi dei vari popoli invasori possono aver affievolito l’uso del cognome e non si siano riportati tali nominativi. Giustificando in tal modo la peculiarita’ esclusivamente salentina di questo cognome.
Nel tardo medioevo si è ripresa la registrazione (Concilio di Trento 1545-63) da parte delle parrocchie degli atti di nascita, morte e matrimonio e la conseguente necessità di individuare quanto possibile la linea filiale per cui è possibile/probabile che l'attuale cognome Puce, come altri, possa essere stato dato proprio come una sorta di "soprannome indicativo" ad un "gruppo". Per cui è certamente improbabile, se non impossibile, che tutti coloro che hanno questo cognome possano far riferimento ad un unico capostipite. Per cui è certamente improbabile che tutti coloro che hanno questo cognome possano far riferimento ad un unico capostipite ma indichi un gruppo di persone provenienti da una medesima localita’ o facenti parte ad un particolare gruppo etnico.
Il cognome identificativo di questa famiglia, nell’Universita’ di Sanarica, è riscontrabile in vari documenti gia’ a partire da meta’ del 1400; precedentemente le notizie sono frammentarie in quanto l’abitato di Sanarica (Casalis Sanericce), citato per la prima volta come tale avviene nel 1373 e pare fondato, come altri centri vicini (Giuggianello, Pozzo Mauro oggi scomparso, etc.) da un manipolo di scampati dalla distruzione del vicino abitato di Muro (risalente al periodo messapico) dalle incursioni saracene intorno al IX – X sec. d.C.. Certamente i nuclei familiari, che in quel periodo comprendevano piu’ generazioni, scampati alle incursioni si saranno spostati in un determinato luogo in maniera omogenea e non si saranno dispersi individualmente nel territorio per cui l’insieme di persone con lo stesso cognome giunte nell’abitato di Sanarica dovrebbe essere un unico gruppo familiare e, come detto, censito gia’ nelle registrazioni della fine del XIV inizi XV secolo ed ancora oggi presente nella comunita’.
FONTI:
- Documenti vari (diari, corrispondenza, atti di nascita, morte e matrimonio) in possesso della famiglia;
- Archivio di Stato presso la Prefettura di Lecce;
- Archivio del Santuario della Madonna delle Grazie in Sanarica (Lecce);
- Atti catastali e di proprieta’ della Famiglia in agro di Sanarica (Lecce);
- Biblioteca pubblica arcivescovile Brindisi, A. De Leo, Manoscritti, ms_N/9, Carta: 15r, 16v-17r 1803;
- C. Merlo, Lingue e dialetti d’Italia, Milano 1937;
- Antonio Sammartino, Studio toponomastica del Territorio di Montemiro;
- Motta, I turchi il Mediterraneo e l’Europa, FrancoAngeli Editore, Milano 2003;
- E.Brunn, in Bull Inst., 1860, pg.235;
- C.Pauli, in Rocher, III, 2, 1902-7, c. 3272, s.v. Puci;
- A.H. Smith, Cat. Of Engraved Gems in the Br. Mus., Londra 2888, n. 498;
- F.H. Marshall, Catalogue of Finger Rings in the British Museum, Londra 1907, n. 306, tav. IX;
- A. Furtwängler, Gemmen, II, p. 99, tav. XX, n.31;
- R. Enking, in Pauly-Wissowa, XXIII, 2, 1959, c. 1937 s., s.v.;
- Eqrem Çabej, Gli albanesi tra Occidente e Oriente, BESA 2007.
Proprietario terriero, arruolato, nel 1904, nel 2° reggimento Granatieri allo scoppio della Grande Guerra, richiamato alle armi, venne assegnato al 69° reggimento Fanteria della Brigata «Ancona». Il 7 novembre la Brigata entra in linea e schiera i suoi reparti di fronte alle posizioni nemiche di Peuma (69° reggimento) ed Oslavia (70° reggimento); partecipando così alla IV battaglia dell’Isonzo (10 novembre – 5 dicembre). Il 10 dicembre il 69° riprende gli assalti per la conquista delle posizioni nemiche e dopo qualche lieve progresso per la conquista di quota 160, subendo ingenti perdite, dovette indietreggiare. Rimasto ferito durante i combattimenti, il 15 dicembre, spirava a seguito delle ferite riportate. Sposato con Maria Rosa Stincone (Sanarica 06.12.1885 – Sanarica 08.11.1921) ebbe tre figli Raffaele, Antonio e Luigi.
FONTI:
- Documenti vari (diari, corrispondenza, atti di nascita, morte e matrimonio) in possesso della famiglia;
- Atti catastali e di proprieta’ della Famiglia;
- Stato Maggiore dell’Esercito – Stati di Servizio Ufficiali;
- Archivio di Stato presso la Prefettura di Lecce;
- Antonio Garrisi, Cavallino – Cronistoria 1870-1900, S.I., Lecce 1996;
- Antonio Garrisi, Cavallino – Cittadini di Cavallino, Capone, 1992;
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"La storia la scrivono sempre i vincitori, questo è uno dei principi che l'umanità ci ha insegnato. Raramente costoro hanno riconosciuto ai vinti una qual forma di "cavalleresco rispetto" e, quando ciò è avvenuto, era dovuto più che altro alle opportunità di comodo del momento. Mentre ancor più rare sono le espressioni di stima e considerazione nei confronti del proprio avversario. Sempre più spesso, invece, si sono verificati tentativi di diffamazione, derisione o demonizzazione del nemico con il solo fine di screditarlo dinanzi all'opinione pubblica interna e internazionale. Un vecchio vizio che, sino all'invenzione della stampa, veniva diffuso e propagandato solo per via orale, e le "eroiche" gesta dei buoni facevano scudo alle infamie perpetrate dai cattivi. Ma chi erano realmente i buoni e i cattivi? È mai possibile che la divisione sia sempre stata così netta? Certo che no. Ma qualcosa di molto simile venne architettato, da parte del Regno piemontese e dei suoi sostenitori (liberali italiani ed europei, governo inglese e francese, massoneria, etc.), nei confronti di un altro Stato italiano dell'epoca: il Regno delle Due Sicilie."
La storia della fine del Regno delle Due Sicilie e gli albori dell’unità d’Italia raccontati con dovizia di particolari, aneddoti dimenticati o più spesso tralasciati dalla storiografia ufficiale. Un libro che, in antitesi con conformisti e revisionisti dell’ultima ora, ripercorre gli eventi di quei giorni lontani partendo dai protagonisti di quegli eventi, facendo riscoprire al lettore che quegli uomini semplici, umili contadini, pastori e artigiani spesso analfabeti, ma che nelle ore più buie della propria terra seppero dimostrare, al contrario di dignitari e notabili, una dirittura morale e un senso dell’onore degni soltanto di pura ammirazione. Quegli uomini altro non erano che i nostri nonni.
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Il Real Esercito delle Due Sicilie è stato, insieme all’amministrazione del Regno di Napoli, l’istituzione più denigrata e irrisa dalla biografia ufficiale sin dal periodo risorgimentale. Ancora oggi, su molti testi scolatici, viene proposto come un coacervo di volgari e meschini individui dediti al personale interesse e alla difesa di una pusillanime dinastia. Persino con l’avvento della Repubblica questa tendenza non è cambiata, e ancora oggi, anche se con i primi distinguo, si continua a raccontare quella stessa storia.
Ma chi erano realmente quegli uomini da cui tutti prendono doverosamente le distanze da ben 150 anni? Erano realmente un’accozzaglia di gente vile e senza onore o questa visione è soltanto il frutto di una retorica risorgimentale che ancora ci trasciniamo dietro senza il coraggio di modificare?!
Non disponibile per la libera vendita.
Edizione limitata a esclusivo beneficio del personale del reggimento Lagunari “Serenissima” dell’Esercito Italiano. Il vademecum è stato scritto per tramandare le tradizioni, gli usi e i costumi del reparto ai nuovi arrivati definiti goliardicamente, secondo una secolare tradizione veneziana, “baffi”!